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CRITICISM

Gilda Luongo

Parabola infinita ≈ Fenomenologia della kappa | Gilda Luongo Critico e Curatrice d'Arte


«La ricerca artistica ha fonti misteriose che seguono un sentiero che talvolta non può essere modificato, ci allontaniamo da quelli che sono stati gli inizi e seguiamo il flusso delle esperienze, delle sensazioni e della maturazione personale. La parabola è per me l’infinita estensione del segno dell’anima, gioco inesprimibile del fare pittura come luogo indicibile del senso»: così scriveva Gerolamo Casertano in occasione della mostra
“Parabola 2010”.

Quelle parole, dopo sette anni, acquistano un senso, una chiarezza ineffabile e silenziosa. Allora cercavo spiegazioni razionalistiche, interpretavo seguendo il filone delle avanguardie e della storia. Pensavo che le sue opere avessero attraversato le innovazioni più significative dell’arte europea e americana. Sbagliavo. Gerolamo Casertano è stato un argonauta d’infinito, le avanguardie lo hanno solo sfiorato mentre lui, perennemente in movimento, era già altrove, in viaggio dentro vertigini di luci e d’ombra. La scrittrice Anna Correale ha colto la sua essenza nella descrizione del senso di rapimento che creava nelle persone che lo conoscevano bene: «è sempre così che mi sento quando incontro Gerolamo, spiazzata rispetto all’ordinarietà dei fatti, all’ovvietà delle cose, senza che questa perdita di orientamento produca malessere, essa crea piuttosto una forma di euforia che mi spinge a seguirlo in quel suo spazio d’artista in cui le cose, gli oggetti, il mondo, sono ingranaggi macchinici di desiderio».

Ho conosciuto anch’io quell’euforia. Quell’euforia mi spinge ancora oggi a seguire l’argonauta d’infinito, l’artista geniale innamorato del mistero, il poeta dei flutti d’acqua, lo spirito senza riva traboccante di mondo. Lo immagino lì, in alto, coperto dal suo ombrello, a guardare la sua città «distesa su uno spillo, in attesa di uno ciao ciao a tutte le gocce d’acqua prima che cadano per terra per la gioia di un sorriso». Lì non ci saranno i lupi, o meglio gli sciacalli, come temeva lui, attenti solo al profitto e all’apparenza.

Parabola infinita ≈ Segni dell’anima ≈ Fenomenologia della kappa costituiscono la trilogia tematica che ho attinto dalla conoscenza dell’intera produzione artistica di Gerolamo Casertano. Egli riposizionava tutto, rimodulava segni e parole, portava una teoria o un pensiero ai minimi termini e poi, quando era giunto a una convincente soluzione, immediatamente la ribaltava, lasciando l’interlocutore affascinato dall’enigma. La verità per lui era solo l’accettazione del paradosso e dell’ironia, un’ironia dirompente, intrisa di malinconia, che trasformava il cosmo infinito in libro dell’anima.

Certi tratti del suo essere artista ricordavano il lirismo alfabetico di Rafael Alberti e la napoletanità umile e dolente di Massimo Troisi. Il titolo della mostra viene da lui, dalla sua ossessione per la parabola in senso geometrico, linguistico, semantico e allegorico. La fenomenologia della kappa dal suo ricorso compulsivo a intitolare le opere con questa lettera. Ricordo quando, Incalzato dalle mie domande sul perché utilizzasse sempre quella lettera, in un attimo diventava serio, non giocava più con le parole, dismetteva i suoi discorsi intermittenti sul tutto e mi rispondeva: «io lo so, io lo so il perché ». Solo ora, attraverso la mia fascinazione per alcune lingue antiche e per la semiotica, quelle lettere sembrano diventare un codice, un linguaggio archetipo, un segno dell’anima, un indizio dell’‘En Sof.

Archetipa diviene anche l’impronta di suo nonno, il pittore ligure Gerolamo Graffigna, poeta degli affreschi e dei colori, e dall’amata sorella artista Maria Luisa Casertano riceverà la spinta e la motivazione a non arrendersi, accogliendo da lei la sicurezza di un amore incondizionato e il riconoscimento sincero del suo talento. Né si può tacere che, grazie all’afflato con la compagna di vita Giovanna D’Alessio, ha potuto coltivare in piena libertà il suo percorso ininterrotto di ricerca e di espressione.

Gerolamo Casertano è nato a Napoli da madre genovese e padre partenopeo. Questa doppia identità geografica ha nutrito il suo alfabeto segnico di sguardi oltre l’orizzonte, di necessità di abbattere lo spazio e il tempo diventando natura, albero, pioggia, silenzio, armonie di forme, colore, musica, senso dell’inconscio. Il suo lirismo geometrico è un linguaggio, un codice la cui parabola ha un’incognita costante: la kappa, che può essere zero o infinito. Casertano è l’argonauta del mare sospeso tra cieli inferiori e superiori, come insegna il più antico trattato di qabbalistica, Sèfer ha-Yetziràh. L’esprit de géometrie e l’esprit de finesse si uniscono trasformando i segni del cosmo in segni dell’anima.

Leggere le opere di Gerolamo Casertano vuol dire fare un viaggio nell’indicibile, poiché ogni poesia è depositaria di un segreto. Il suo ermetismo geometrico si epifanizza attraverso segni, lettere, comete, parabole di un universo frantumato che, fanno notare Zanella e Basile, sembra da riorganizzare, non fosse che, come conclude Giorgio Di Genova, l’artista riesce sempre «a calibrare la leggerezza dei morfemi, a coordinare il caos a tal punto da renderlo apparente».

Gerolamo Casertano si fa mondo per non essere straniero, un passeggero clandestino, un J. Kappa imprigionato dalla quotidianità delle cose. Egli si fa mondo per essere un argonauta malato d’infinito. La sua arte restituisce la forza visionaria di chi sa essere sincero ma soprattutto libero.

 

Ora è lì, la sua parabola è diventata un’altalena.

 

 

 

Da "Il caleidoscopio dell’innocenza, in Parabola 2010"

L’arte di Gerolamo Casertano è energia pura, luogo in cui il dinamismo parabolico di segni si apre al lirismo dei suoni interiori. C’è in Casertano una “meravigliosa e misteriosa forza visionaria” libera da qualsiasi forma di rappresentazione realistica o didascalica.

[…]
Guardiamo rapiti a questo tumulto interiore, alla nascita di un’architettura di segni le cui dilatazioni sono dentro la malattia dell’infinito. Nella sua parabola c’è l’impronta archetipa, l’eredità cosmica che continua a inciampare nella quotidianità. L’artista si perde, i luoghi della quotidianità
non gli appartengono, è in bilico, riluttante a ogni forma risolutamente convenzionale e continua incurante a ricercare. Casertano sembra ascoltare solo le voci che attraversano i segni e ne fa poesia. Ricerca, sperimenta, è ossessionato dalle parole, la fenomenologia della
Kappa si insinua nei titoli delle opera: gioca, ironizza sulle pretese semantiche, svuota e scinde continuamente segno e significato, reinterpreta in un impulso convulso e libera la sua creatività ribelle, gioiosa e in alcuni tratti rivestita di una malinconia inaccessibile. Segni e parole
“trasmentali”, superamento di ogni residuale relazione naturalistica, azzeramento semantico, ragione intuitiva, consunzione e dilatazione della forma oggettiva sono per Casertano espressione interiore della “pittura pura” e non adesione razionale a intenti programmatici.

[…]
Parabola è l’evoluzione dinamica del segno in cui si ritrovano fuoriusciti da un mondo istintivo il suprematismo di Malevič e il lirismo di Rafael Alberti. Il filmato dell’80 ha risvolti apparentemente concettuali ma è solo poesia. Ogni sequenza è intrisa di lirismo, l’artista gioca, dipinge su statue di ghiaccio, danza, segue il cammino di una formica, disegna ovunque su foglie, immortala i colori di una farfalla, scava dentro una ciliegia, si sofferma su frammenti, si traveste di carta in movimento, accarezza i visi di pagliacci intrisi di morte e libera al cielo di questa città
palloncini dipinti dai sogni. L’ombrello diviene metafora, parabola dove l’artista si protegge dai “lupi”. I lupi sono ovunque pronti a sbranarlo, i lupi dell’infanzia, i lupi dello stritolamento pseudo culturale, i lupi della faziosità preconcetta, i lupi del corporativismo, i lupi dell’indifferenza, i
lupi dell’analfabetismo segnico, i lupi vuoti di poesia. Casertano come il postino di Neruda non sa di essere lirismo puro, artista dell’anima e non dell’apparenza.

[…]
La sua arte è incontaminata, il lirismo del segno è il suo alfabeto.

Titti Basile

L’incognita esistenziale | Titti Basile docente di Filosofia, LAN


Gerolamo Casertano nella sua vita da pittore ha utilizzato tutti gli stili del Novecento. È passato dalla ritrattistica all’astratto, all’informale, sempre insoddisfatto della rappresentazione del mondo che le sue opere gli restituivano. Perché la ricerca di Casertano è rivolta a trovare la sua chiave della realtà. La sua pittura, infatti, è un tentativo di ermeneutica che mette ordine in una realtà esterna caotica. Quello che Casertano costruisce nelle sue opere è un cosmo, un universo ordinato semplicemente, dove tutti gli elementi del mondo esterno, sia pure incomprensibili, sconosciuti, inclassificabili, trovano un loro posto. Ma l’incomunicabilità resta il noumeno della sua pittura perché le figure, sia pure ordinate intorno a un centro immaginario, non si toccano mai, partecipano di uno stesso mondo, di una stessa famiglia, ma non si sfiorano, si guardano ma non si vedono e non si riconoscono, sembrano occupare uno stesso spazio ma essere inconsapevoli di ciò. Le sue figure, brillanti di colori puri, restano sospese, immobili in un cosmo fotografato nelle sue innumerevoli pose, ma che resta comunque estraneo e alieno. La lettera K che ricorre nei titoli che Casertano dà alle sue opere è la sua incognita matematica da cercare, la sua “x”, il codice da applicare alla realtà fenomenologica. Ma la formula resta sconosciuta, l’artista non può far altro che limitarsi a contemplare una realtà che si sviluppa autonomamente e per non farsene sopraffare la sistema, la plasma di colori allegri facendo finta che sia un gioco da bambini. E così, con il suo tratto nitido, disegna bocche di squali, onde del mare, pezzi di carlinga, pettini, cerchietti che sembrano occhi umani e triangoli che scrutano. Sembra quasi voler comporre dei puzzle, ma i confini di quei frammenti di esistenza non coincidono mai. Casertano è infatti consapevole che nella forma in cui la nostra società si sta sviluppando è fatale, come in un universo in espansione, che le cose si allontanino tra loro, acquistando forme geometriche, logiche, con confini netti e porte sbarrate. E la malinconia, la malinconia che traspare dalla sua opera, non è altro che il rimpianto di non essere vissuto in un altro tempo, nel quale le cose non scorrevano così velocemente da non potere essere gustate, l’arte scopriva strade nuove e la realtà era più simile a lui, uomo pacifico, silenzioso, ironico, riflessivo e inconsapevolmente filosofo.

Giorgio

L’originalissimo aniconismo di Gerolamo Casertano | Giorgio Di Genova critico e storico dell’arte


Per quasi tutti i pittori il primo passo è sui sentieri dell’iconismo. Ma non tutti proseguono su tali sentieri. Infatti non pochi per necessità di esprimere liberamente ciò che la propria immaginazione “detta dentro” lasciano i dettami della verosimiglianza, per incamminarsi nei territori dell’aniconismo, che, scoperti all’inizio del XX secolo, si sono sempre più ampliati, permettendo scoperte di linguaggi nuovi, maggiormente in sintonia appunto con la personale immaginazione. È ciò che ha fatto anche il napoletano Gerolamo Casertano, il quale ha compiuto tale parabola, per utilizzare una parola cara all’artista, dall’iconico all’aniconico. Forse sarebbe più giusto nel caso di Casertano parlare di anabasi dall’iconico all’aniconico, in quanto la parabola, dopo il culmine (vertex), ha sempre una fase discendente, che non mi sembra riscontrabile nella sua produzione dagli anni Ottanta in poi. Infatti egli, una volta raggiunto il suo alfabeto aniconico, ha continuato a esprimersi, senza cadute, con
i suoi «segni dell’anima», come egli amava definire le sue «armonie di forme, in colori », che pescava dal suo inconscio educato all’arte per merito delle sue frequentazioni, tra cui quella con Edoardo Giordano, detto il Buchicco, e sia dei suoi incontri nel periodo della sua formazione sia dei personali approfondimenti della produzione artistica a lui congeniale e assorbita per metabolizzazione. Infatti il linguaggio di ciascun artista si configura per automatica incorporazione di quegli elementi che trova necessari al nutrimento del proprio stile e discorso, allo stesso modo di come avviene nel nostro corpo con l’alimentazione quotidiana, di cui si assorbe ciò che ci serve e si espelle ciò che è superfluo. Certo nel nutrimento di Gerolamo non sono mancati «il suprematismo di Malevič e il lirismo di Rafael Alberti», come indica Gilda Luongo, ma, a mio avviso, il piatto preferito è stato Kandinsky con contorno di Mirò con un po’, soprattutto inizialmente, di condimento di Capogrossi, come farebbero pensare i mezzi cerchi con alla base i segni iterati che per riempimento di colore rendono meduse i “pettinini” del pittore romano. Del resto, il tipico segno capogrossiano nasce per una combinazione di un paio di A con sopra una D, a pancia all’aria, per così dire. E Casertano, lo sappiamo, s’è sempre espresso per trasformazioni alfabetiche, da cui sono scaturiti i morfemi di un suo criptico lessico, con cui ha battezzato le sue opere: i suoi titoli contengono sempre una K, a cominciare da KTA-1 (1980) e proseguendo con DKL26 (1981), con KKKTRNK-3 (1982) giù fino agli anni più recenti, tra cui spiccano i grandi formati del 2009 KKKQRT-3 e KKKQRT-4. Quale siano stati i processi mentali per cui alcune opere venivano titolate Senza titolo e perché talune avevano più di una K è impossibile individuarli, tanto più che sia nell’un caso che nell’altro i morfemi non differivano. Se l’insistenza sulla K deriva da una fascinazione del protagonista dei romanzi di Kafka, in cui lo scrittore praghese appunto s’identificava in K, allora una possibile ipotesi potrebbe essere che i dipinti con K nel titolo erano quelli in cui Gerolamo s’identificava appieno ed i Senza titolo quelli in cui ciò non avveniva. Ma al di là di queste elucubrazioni, ciò che va precisato è che la pittura di Gerolamo Casertano si impone per un’originalità linguistica e per una pregnanza espressiva nel panorama dell’aniconismo, e non solo napoletano. Il nostro pittore era dotato di una vena immaginativa particolare e di una spontaneità esecutiva nel creare morfemi e segni e nel disporli nello spazio, a volte come se volassero (KKKTRNK-3, 1982; KKKQRT-4, 2009), altre volte incorniciandoli in intense giustapposizioni (KKKRTRK-27, 1989), oppure in dense agglomerazioni (KTR2008, 2003), nonché in ritmi di rotte dinamiche (Senza titolo, 1987), riuscendo sempre a calibrare la leggerezza dei morfemi, a coordinare il caos a tal punto da renderlo apparente, com’è in KOOK-21 del 1985, passando dalla rarefazione, che raggiunge il culmine in Senza titolo del 1981, all’accumulazione, o meglio alla ricca varietà dell’accumulazione, per ottenere differenti inflessioni del discorso visivo. E in ciò è stata importante soprattutto la lezione di Kandinsky, che Gerolamo ha saputo sfruttare con quella facilità connaturata, simile a quella che per il poetare era propria a Ovidio, di cui quest’anno a Sulmona si celebra il bimillenario. Se il poeta sulmonese poté affermare: «et quod dicebam versus erat», Gerolamo Casertano avrebbe potuto dire: «Ogni segno che mettevo sulla tela pittura era». L’arte è polisensa, affermava giustamente Galvano della Volpe in Critica del gusto. I morfemi di Casertano sono pregni di questa caratteristica, tanto che ha fatto parlare Luigi Paolo Finizio di «associazione e dissociazione» del segno, Vitaliano Corbi di «un universo di simboli privati», Gilda Luongo di «lirismo geometrico», Anna Correale di «frammenti di macchine desideranti» e me stesso di «allegretti con brio pittografici, dinamicamente sincopati, sommando le ‘popolazioni’ di Flatlandia e Linealandia». Il mondo di Gerolamo è infatti piatto e lineare ed egli ne è il costruttore e allo stesso il cittadino, nonché il narratore, come il “quadrato” del romanzo fantastico di Edwin Abbott Abbott. E certo per questo la sua pittura aniconica è un racconto visivo affidato a un lessico fantastico, trasmesso con parole dalle etimologie geometriche.

Clorinda

Arte, non parole | Clorinda Irace Presidente associazione “Tempo libero”

 

Ho avuto, nel mio percorso professionale e umano, la grande fortuna di incontrare molti artisti. Un rapporto che ha arricchito la mia vita e le ha dato un ulteriore senso. L’immagine che conservo di Gerolamo Casertano è quella di una persona assolutamente scevra da rumorosi protagonismi, poco incline a parlare di sé ma ben determinato a far esprimere, in vece sua, la sua arte. Le tante opere che ci ha lasciato sono una traccia indelebile del suo percorso umano e artistico e, adesso che non c’è più, guardarle ci dà la possibilità di intrecciare ancora con lui una conversazione essenziale, fatta di sensazioni e di emozioni evocate da quelle tele colorate e intriganti: a ben pensarci, la situazione che si crea non è molto dissimile dalle conversazione reali che con lui abbiamo avuto in passato. Ricordo quando, una volta che lo incalzavo con domande varie per un’intervista, a un certo punto ammutolì completamente e mi guardò con intensità, consegnandomi dei suoi cataloghi. Dopo un iniziale smarrimento, compresi che la conversazione era terminata, che non avrei ottenuto altro da lui e mi apprestai a dedicarmi ai cataloghi in un dialogo muto con la sua arte. Mi aveva suggerito, senza dirlo, la traccia giusta per capire chi era e cosa voleva rappresentare. Scoprii un percorso che, iniziato con uno sguardo rivolto al Fauvismo, si era evoluto in una pittura più pacata e matura, a tratti onirica e lirica: un mondo di segni che, distribuendosi sulla tela in modo inconsueto (scorgevo frammenti di figure geometriche, di lettere, di numeri), mi parlavano di una visione del mondo ben precisa, di una ricerca di chiarezza in un mondo che chiarezza non ha, di segni interrogati e re-interrogati nel tentativo di far emergere verità che - inevitabilmente - apparivano frammentate e traballanti. «La libertà è essere sinceri con sé stessi», si legge nel catalogo della sua mostra Parabola del 2010, e in questa affermazione si può intravedere la sua idea di arte, l’idea di un uomo semplice che si poneva in modo onesto e lineare rispetto a un mondo complesso quale quello dell’arte, suo rifugio e scopo principale della sua esistenza. Si lasciava trascinare da questa esperienza artistica, così totalizzante e straniante, vi si immergeva tutto, vi si affidava, accettando di farsi guidare da essa e di farsi condurre in territori inesplorati ed imprevedibili. Affermava, nel suo scritto, di «seguire il flusso delle esperienze e delle sensazioni», riuscendo - stavolta - a condensare in pochissime parole la sua assoluta dedizione a un sentire artistico che lo investiva pienamente quando realizzava le sue opere. I risultati sono davanti ai nostri occhi: un testamento umano e artistico su cui riflettere, una lezione di sobrietà formale e umana davvero insolita nella nostra società “liquida”, dove spesso le parole si sostituiscono ai fatti, diventando esse stesse protagoniste di un nulla che facciamo fatica a riconoscere.

Maria Rosaria

Il disegno segreto: infiniti interiori e un vero e proprio ricamo mistico | Maria Rosaria Fazio docente di Lingua e Mistica Ebraica

 

«Ogni artista intinge il pennello nella sua anima, e dipinge la sua stessa natura nelle sue immagini»
(Henry Ward Beecher)

Dedico questo mio scritto alla memoria di Gerolamo Casertano. Il vero artista è colui che vuole che la bellezza e l’armonia della Creazione passino attraverso lui, si riflettano attraverso lui, anche con la sofferenza. Egli prende la propria carne come materia da scolpire, come tela da dipingere e i suoi pennelli, la sua tavolozza, sono i suoi pensieri, le sue emozioni e i suoi sentimenti. La bellezza diventa una realtà viva. L’arte, per la Qabbalah, è associata alla Sefirah della Sapienza, in quanto nel corpo sefirotico essa è collocata in corrispondenza dell’emisfero cerebrale destro, che nell’uomo è sede del pensiero intuitivo, delle emozioni, della percezione, delle immagini, dei simboli, dei segni e della creazione artistica. La Saggezza, inoltre, è l’attributo specifico che la Torah associa agli artisti: «L’Eterno parlò a Moshèh e gli disse: nel cuore di ogni artista (saggio di cuore) ho infuso sapienza affinché possano eseguire quanto ti ho comandato» (Esodo 31,1-6). L’esperienza artistica di G. Casertano è un cammino spirituale che ci svela la nudità nascosta del suo intimo, ma anche dell’intero cosmo. I suoi quadri aspirano a diventare conduttori di energia che portano l’osservatore sul cammino della conoscenza estatica: ogni sua opera d’arte ha un contenuto concettuale, ma ha anche una storia “personale” legata al suo vissuto o al vissuto delle persone che, in qualche modo, sono venute in contatto con essa. I vari elementi dello studio dell’arte come punto, linea, forma, chiaro-scuro, luce e ombra (elementi che ho anche riscontrato nell’arte di questo artista) affrontati secondo il punto di vista della Qabbalah sono il processo stesso della creazione artistica, tanto da diventare un’esperienza spirituale capace di trasformare la nostra vita e il mondo circostante. Ho cercato di coniugare i messaggi più sublimi della Mistica Ebraica con la pittura di quest’artista. È meraviglioso quando c’è l’incontro tra la lettera ebraica (come la lettera “ כ” ebraica, traslitterata “K” e riscontrata anche come segno nella sua pittura), lettera che forma la parola dell’uomo, una firma, un codice, il segno, il colore che custodisce l’interpretazione: l’immagine diventa come un libro che custodisce quell’infinito interiore. Interpretando la pittura di G. Casertano ho scoperto anche un legame con lo Zohar (Libro dello Splendore) e le 10 Sefirot (quei cerchi che spesso riaffiorano nei suoi quadri), 4 delle quali sono chiamate con i nomi di 4 colori: bianco, rosso, verde, nero. Il Bianco corrisponde alla Sefirah della Sapienza, il Rosso alla Sefirah dell’Intelligenza, il Verde alla Sefirah della Bellezza e il Nero, che corrisponde alla Sefirah del Regno della nostra Realtà. Questi colori spesso impregnano i suoi dipinti: sono i colori dell’anima, del mondo, sfavillio di luce, Luce del Creatore, luce semplice che poi diventa unificata. La Luce del Mondo di Atzilut (Mondo dell’Emanazione) che si unifica con il Mondo di Yetzirah (Mondo della Formazione). Queste Sfere fatte di luce dove filtra la luce delle sue sensazioni, emozioni, diventano il segreto della lettera (Kaf - כ): vaso, contenitore sferico che in ebraico si traduce “ כלי ” (KLI), la luce bianca che passa dalla sfera della Sapienza a quella dell’Intelligenza, dalla Bellezza alla creazione di un’immagine. L’invisibile diventa visibile, la Saggezza dell’Infinito viene rivelata attraverso un disegno, un colore, una forma: si rivelano i colori del Cielo. Questo bianco sfolgorante, che si ritrova come sfondo dei quadri, rende luminescente il tutto ed è proprio qui che la rivelazione di uno stato d’animo diventa spiritualità, s’incomincia a percepire, attraverso una forma, la sensibilità o l’inquietudine dell’artista. La nostra visione percepisce, così, delle onde dell’essenza di ciò che noi
vediamo (cerchio, punto, immagine) in accordo alla luce che questo dipinto riflette: si ascolta, perché il quadro lo si può sentire non solo vedere, ti fa conoscere il potere delle onde sonore, trasmesse attraverso i colori, quelle linee curve, diritte, semi-cerchi ( כ), forme dentellate e spezzate, attraverso l’aria che lo circonda. Questo “silenzio” che emana e quest’aria riflessa sotto l’influenza di linee, triangoli e altre forme esercitano un potere particolare, in questo modo siamo capaci di sentire qualcosa vicino a noi: si rivela l’essenza delle immagini di quest’artista. Si riesce a comprendere e a discernere persino il caldo e il freddo (colore caldo e colore freddo), che è nient’altro che la rivelazione di un qualcosa di eccezionale all’interno di un’immagine, di un’essenza. Da come si può notare la Qabbalah entra come un flusso continuo nella sua arte, le sue opere sono invase da misteri, ti trasportano nei meandri dell’anima. La sua arte diventa un disegno segreto, unviaggio dove pittura, cultura e mistero si fondono lungo una strada di messaggi terreni e celestiali. Ora cercate di seguirmi e vi mostrerò, ancora di più, cosa si cela dietro la bellezza interiore di quest’uomo! Ritornando alla lettera “K” ( כ), essa rappresenta la via della consapevolezza spirituale e della conoscenza oltre la comprensione, è il simbolo del palmo della mano, rinvia alla mano che si apre e porge, e l’artista ha bisogno delle mani per dipingere e porgere la sua arte. Questa lettera parla dolcemente all’orecchio di coloro che sono piegati (Ketufim) sotto il peso della sofferenza e della tristezza, poiché, comunque, l’Eterno risolleva sempre coloro che lo ascoltano. La forza che dà la pulsazione di questo “palmo”, forse di questa “carezza” della mano di questo pittore, ci solleva e si esce dall’oscurità, scende verso di noi, verso quelli che ancora ignorano che il corpo e l’anima di un uomo o di una donna, piegati o rassegnati, possono rinascere e raddrizzarsi quando sono sfiorati da colori e forme che racchiudono la vita. Il valore numerico della lettera “ ”כ è 20 e sommando l’anno di nascita di G. Casertano, che è il 1946 (1+9+4+6=20), abbiamo lo stesso valore numerico di questa lettera ebraica. Il punto nero che spesso si ritrova nella sua arte equivale a uno zero, silenzio, la linea è forza, tensione, movimento, il triangolo, invece, rappresenta i 3 pilastri dell’Albero della Vita (Misericordia, Rigore, Coscienza). Nelle scuole misteriche spirituali del passato si insegnava che la geometria è stata usata da Dio per creare l’Universo, la geometria sacra contiene molti elementi misteriosi che descrivono molti fenomeni. Lo schema della Genesi: all’inizio la mente universale di Dio creò, da un totale vuoto (Tzimtzum) o nulla, dal “punto” focale della consapevolezza di Dio, una sfera centrale; da ciò deriva l’Albero della Vita, sfere che afferrano la bellezza della simmetria geometrica. Queste forme geometriche perfette e semi-perfette fanno parte del Mondo delle Idee di cui parlava Platone e l’artista qui si perde tra le sue forme geometriche. Vi si riscontrano connessioni spirituali con noi e lui e questo ci rende più sicuri nel riconoscere la sua arte. È come se vivessimo in una dimensione diversa, superiore alla nostra, significa poter vedere con occhi diversi: significa avere una connessione permanente con la luce, è come se si aprisse il Sigillo del Silenzio, si apre, così, la parte di una dimensione. È un amore impossibile da sperimentare con le parole, ma qui la sua arte ti trasmette un’emozione sublime, è come se ti concedesse il tempo per lasciare penetrare in noi quei colori, quelle linee, quei cerchi, quei punti: si apre quella parte dell’anima e l’artista ci dona dei forti segnali interiori, che entrano in risonanza con i segnali che troviamo lungo il cammino dell’esistenza. Ci fa trovare nel mondo esterno e anche in quello interno, e l’esteriore è necessario per creare quella comunione fra dentro e fuori. Ogni colore, linea, cerchio, triangolo è una via dell’interiorità, è giusta, affascinante, anche se qualche volta è sofferta, l’artista è come se si trovasse in quel punto e in quel determinato tempo (cerchio = ciclo della vita), è lì che vuole essere, è come se cercasse di ascoltare i segnali del suo corpo che lo incitano a seguire una via che si trova all’esterno e che è entrata in risonanza con il suo più intimo sentire: sono punti di riferimento. Il bianco, il beige come anche il nero dello sfondo dei quadri ci fa comprendere la sua intima essenza che sottovoce gli parla, ci parla; ci trasmette qualcosa che riguarda anche noi. Il colore ha rivestito la sua coscienza, è diventato un bisogno umano, in quel bagliore si rispecchia la sua anima frammentata. Queste diversità geometriche tentano di dare un volto all’indefinibile, a qualcosa
che volto non possiede. Le forme spezzate, rettilinee, curve (come la lettera ,( forme che sembrano occhi che cercano di scoprire e sperimentare il mondo interiore e superiore, possibilità di scorgere la verità in forme sempre più “grandi” che avanzano verso un Infinito divino: spezzare ogni confine ed entrare in un mondo dove c’è l’opportunità per vedere oltre se stessi, oltre il proprio ego; siamo liberi di volare in quello spazio infinito e interiore; pittura in cui misticismo e arte si sovrappongono e si confondono: ombra e chiarore. Lo spirito creatore di questo artista riesce ad aprirsi un passaggio prima nella sua anima e poi nelle anime, suscitando una nostalgia, un impulso interiore, tanto da diventare molto forte e da creare un nuovo valore nello spirito umano, un valore che comincia a pulsare nella coscienza o nell’inconscio dell’uomo. Da quel momento l’uomo si mette a cercare una forma materiale per il nuovo valore che vive in lui in forma spirituale, e questa ricerca è la creatività: ogni forma diventa un essere vivente e ci accorgiamo di partecipare a una grande avventura meravigliosa. Il talento di quest’artista mi ha trasportato, con armonia e rapidità, verso grandi altezze, sono riuscita a toccare tutti i piani dell’esistenza, si comprende la possibilità di entrare nell’opera e vivere il suo pulsare con tutti i sensi. Gerolamo Casertano è stato una magnifica creatura di questa terra, ha cercato il Sole del mattino e lo ha trovato attraverso quei cerchi, quei punti, quelle linee frammentate e diritte e anche se, alcune volte, vi troviamo dei colori cupi, ci ha tramandato che l’ombra è il passato, la realtà è la Luce e quindi il presente, perché una parte del suo Sé vivente è ancora presente qui con noi, nei suoi quadri: ci fa ritrovare complici e partecipi di questa sua realtà.

Dario

Ricordo di un Artista | Dario Giugliano docente di Estetica Accademia delle Belle Arti di Napoli

 

Ricordare Gerolamo Casertano, per me, è insieme un’azione agevole e complicata. Eravamo vicini di casa, così come lo sono ancora, adesso, della moglie Giovanna D’Alessio, che tanto amore e tanta cura ha per la memoria e i lavori del compianto marito, insieme alla sorella di Gerolamo, l’artista Maria Luisa, a cui si deve l’iniziativa di questa mostra. Siccome, però, sia io che lui non brillavamo per espansività, pur avendo interessi
comuni, non avevamo legato al punto da divenire intimi. Eppure, molto ci accomunava, lo ripeto, anche caratterialmente: un certo delicato riserbo, che ci portava, naturalmente, a non oltrepassare un certo limite, nel rapporto con l’altro, quasi a non voler infrangere quella sottile, eppure evidente, barriera della discrezione, direi quasi della segretezza, ma si trattava, appunto, soprattutto per Gerolamo, perché è di lui, ora,
che voglio parlare, di grande sensibilità ed educazione, merci rarissime, oggi. Per questo motivo non mi aveva mai chiesto di potermi mostrare i suoi lavori. Egli, persona estremamente gentile, dotata di infinito garbo e tatto, temeva di disturbare. Quelle volte che ci siamo fermati a parlare, mai ho sentito, dalle sue labbra, il minimo accenno a polemiche o a risentimenti o, peggio, a maldicenze, merci, queste, invece, diffusissime, soprattutto tra gli artisti. Perché Gerolamo era una persona autenticamente buona, interessata solo e unicamente ai processi creativi della sua pittura, dei suoi disegni. Viveva per questo, come mi ha dato poi conferma la moglie Giovanna, facendomi conoscere quanto avevo solo sospettato o immaginato potesse esserci, ovvero una produzione enorme di quadri, esito naturale di decenni di ricerca artistica condotta con rigore, serietà, ininterrotta continuità. Da qui, l’amarezza mia, costante, del trovarmi al cospetto con un ennesimo caso di questo tipo, in questa nostra città, le cui istituzioni sono, da quando ne ho memoria, distratte o disinteressate a queste cose. In questa mia testimonianza, vorrei brevemente soffermarmi su una tipologia di suoi lavori, eseguiti con la tecnica cosiddetta a spruzzo. Si tratta di lavori che potrebbero essere ascritti alla categoria del figurativo (per quello che può valere ancora oggi una simile categorizzazione). Quello che mi interessa di questi lavori è quanto riesce a emergere, guardandoli, di una poetica, di un tratto a mio avviso determinante di una ricerca artistica, che difficilmente si potrebbe comprendere appieno, non avendo conosciuto l’autore. Con questo non voglio dire che per comprendere un’opera, per analizzarne motivi, ragioni, occorra risalire alla biografia dell’autore. Voglio semplicemente affermare che conoscendo una persona, analizzando, per esempio, i lati del suo carattere, possono acquisire senso determinati tratti delle sue decisioni di poetica e anche delle sue scelte tecniche. Ora, se penso alla tecnica a spruzzo, che si mette in pratica col soffio della bocca attraverso apposite cannucce in cui è contenuto il colore, mi viene in mente quanto analogamente si fa per ottenere il suono dagli strumenti a fiato. Non tutti sanno che, in determinati generi musicali, nel jazz, per esempio, generi quindi interessati da pratiche improvvisative, molti musicisti, che suonano strumenti a corda come la chitarra, cercano di ottenere dal proprio strumento una sonorità che si avvicini a quella di uno strumento a fiato, come il sassofono, per esempio. Il motivo di questa ricerca sonora è dovuto, pare, a una fluidità del suono, ma anche a un controllo sullo stesso, che si ottiene con gli strumenti a fiato, proprio perché attraverso la bocca e il respiro si riesce, se non proprio a eliminare del tutto, almeno a ridurre al minimo la “distanza” tra sé e il proprio strumento, in termini, appunto di controllo e resa del suono. In fondo, suonando un sassofono, se ci si riflette, quello che esce dallo strumento
è una amplificazione e modificazione del proprio stesso fiato e respiro, entro certi limiti. Quello strumento, quindi, è come se partecipasse molto più di altri a esprimere una intimità, meglio, l’intimità più profonda e segreta, quella costituita dal proprio stesso respiro vitale. Non so se sia questa la ragione per la quale, quando ho visto i lavori di Gerolamo Casertano, eseguiti con la tecnica a spruzzo, ho pensato che meglio degli altri rendevano quel tratto di gentile, delicata, riservata cortesia, che lo contraddistingueva, quel suo mite riserbo, che lo rendeva una persona così civile. In quei dipinti mi è sembrato di vedere tutto un lato profondo, abissalmente profondo di una persona, che può ben caratterizzarsi come altro volto di tutta l’altra sua ricerca coloristico-geometrica, su cui parallelamente ha lavorato per decenni.

Alessandro Manna

Denso come un mattone | Alessandro Manna fotografo e critico

 

«My words but a whisper - your deafness a SHOUT.
I may make you feel but I can’t make you think.
[... ]
and your wise men don’t know how it feels to be thick as a brick»(*)
(Thick as brick, Ian Anderson)

 

Vivaci, da subito, e facili e (pure) sofisticate; leggiadre ma assolutamente dense; originali, però accompagnate da una idea (quasi onirica) di déjà-vu. Le descrizioni oggettive delle opere di Gerolamo Casertano partono da lì, da una ricognizione veloce che comunque, e altrettanto rapidamente, si accorge - a pelle - della essenza duale delle forme, dei toni, delle immagini. Con più lentezza, a passo più pesante e incerto, affiora il lavorio, cerebrale e sentimentale, molto prima che manuale, che struttura le opere. Ecco un altro pregio: le opere sono dei meccanismi a orologeria che attraggono per forma e colori, piacevolezza basilare, e - poi - rimangono lì, nell’intimo di ogni osservatore ad essere metabolizzate, fatte proprie ricostruendo i nessi, le geometrie recondite, i rimandi, le citazioni, le allusioni, i suggerimenti, che l’autore ha piantato sotto la superficie del quadro. Pellegrinaggi ideali nei grandi dubbi dell’esistenza usando colori quasi sempre squillanti come compagni di percorso; andate-e-ritorni metafisici tra il “qui e ora”, a volte brusco, tetro, pesante, e le immaginazioni, le poesie mentali, le utopie confortanti. Viaggi mentali affrontati sulle tele che diventano enormi vele con cui attraversare mari ignoti per arrivare a mete di cui si era sentito parlare, ma che non si era mai viste; approdi favolistici che di volta in volta sono i porti naturali dalla spiritualità profonda e antica, quasi ancestrale, oppure le banchine mobili delle avanguardie artistiche, o i moli labirintici della filosofia o anche gli atolli immaginifici di una specie di enigmistica afona. Viaggi spesso pericolosi, accidentati, anche intramezzati da naufragi, che - potenza di una Weltanschauung inattaccabile - diventano a loro volta viaggi nel viaggio, «E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare», scolpì Ungaretti. Era un gran lupo di mare della sua mente, viaggiatore infaticabile e inarrestabile; e se, per Susan Sontag, «… la fotografia impacchetta il mondo per renderlo collezionabile», il corpus di memorie delle navigazioni di Girolamo Casertano è reso denso sulle sue vele, ammainate, colorate e intelaiate.
Per farci pensare, dopo averci emozionato.

Andrea Zanella

Caos e Nomos | Andrea Zanella storico dell’arte - docente Accademia delle Belle Arti di Napoli

 

Di Gerolamo Casertano non conosco tutta la produzione, qualche opera figurativa degli anni Settanta, alcune tele marcate da intrecci leggeri di segni dinamici eseguite tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, alcune pitture “a spruzzo” e soprattutto tante opere che appartengono a quella produzione definita del lirismo geometrico. Forse troppo poco per un pittore la cui ricerca artistica - come già sottolineava Antonio Del Guercio nel 1978 - merita molta attenzione. Eppure sin dai primi esempi che conosco mi pare evidente quello che ci sia nell’arte di Casertano un dialogo con il cosmo. Un dialogo che inizia dapprima con i mezzi dell’arte - il colore, la linea, il segno - e poi con la storia dell’arte recente. Del Guercio scriveva di confronto con le avanguardie, Gerardo Pedicini nel 1980 e Luigi Paolo Finizio nel 1981 notavano degli avvicinamenti a Kandinsky, Klee, a Gorky e a Capogrossi, qualche segno alla Hartung e qualche figura di impronta Picassiana. Nato nel 1946, Casertano si interroga probabilmente sulle avanguardie del Novecento come molti giovani della sua generazione, cercando di capire quanto il tentativo di rinnovare l’arte fosse riuscito. Ma sembra distogliersi presto da questa domanda che in fondo non porta a nulla e sembra scegliere un cammino diverso, più interiore. Sembra percorrere a ritroso la storia dell’arte e per salti arretrare fino a Bosch e ai suoi giardini incantati riletti in chiave positiva e ancora più indietro fino a ritrovare dei segni che diventano archetipi e che poi caratterizzano tutta la sua pittura. All’inizio sono segni, poi forme bidimensionali complesse in opere del 1972 che sono ancora denominate Senza titolo. Con le serie delle K i segni si moltiplicano, si diversificano, si ripetono, ma soprattutto negli anni Ottanta acquistano volume. Ecco un valore nuovo o almeno rivisto in maniera nuova nella produzione di Casertano, di lì a poco gli sfondi non sono più superfici, ma spazi sempre più profondi dove i segni diventano forme tridimensionali e acquistano una loro vita, un dinamismo energetico che talvolta, grazie all’accostamento dei colori, diventa dramma e talvolta diventa gioco. E dov’è il punto di incontro di dramma e gioco se non nell’ironia? Ecco che nella loro forza geometrica le opere di Casertano diventano ironiche attraverso la combinazione strutturale di colore e forme, linee, spazi e superfici. Artista sin dall’infanzia, così come i suoi amici più cari sembrano ricordare, Casertano ha sperimentato diversi linguaggi artistici, prediligendo tuttavia la pittura. Ricevuto il dono di saper dare vita a un segno, armonizzare colore e forma, l’artista sembra proiettarsi con ironia nel suo mondo immaginario dipinto, sembra in qualche modo ritrovare se stesso attraverso i suoi simboli, sembra scomporsi e ricomporsi nello spazio ideale e colorato al confine tra caos e nomos dove c’è assenza di gravità e dove c’è soprattutto libertà.

Anna Correale

Il Gioco delle cose | Anna Correale (da Parabola 2010 - segni dell'anima)


Lui si aspetta che io gli dica qualcosa e contemporaneamente non si aspetta nulla, sa che potrei offrirgli le parole che danno riposo a quei tratti che scappano via, a quelle linee che gli disegnano intorno il loro irrequieto, perpetuo giocare, aspetta in silenzio, davanti alla tazzina bianca, le mie parole, senza chiedere, distratto, altrove, mentre la sua attenzione si posa dappertutto, a una velocità impossibile da calcolare, il cucchiaino macchia il tovagliolo di caffè, la ragazza che serve ha le righe nere sulla maglia viola, i miei orecchini sono pioggia nella luce, le automobili in piazza fanno giri rumorosi, e nel passaggio tra l’una e l’altra si fa il silenzio, continuità e interruzione, sguardo fermo, pensieri veloci, a tratti interviene Gerolamo nella nostra conversazione, con battute sorprendenti che irrompono nel discorso liberandoci a una risata che toglie consuetudine alla realtà. È sempre così che mi sento quando incontro Gerolamo, spiazzata rispetto all’ordinarietà dei fatti, all’ovvietà delle cose, senza che questa perdita di orientamento produca malessere, essa crea piuttosto una forma di euforia che mi spinge a seguirlo in quel suo spazio di artista in cui le cose, gli oggetti, il mondo, sono ingranaggi macchinici di desiderio, frammenti di macchine desideranti, pezzi di giocattoli scoppiati da un eccesso d’uso, un mondo che trabocca sul mondo, gioioso, dirompente, impertinente, che non si lascia contenere dalle misure del senso, dai vincoli dei significati. Vorrei incontrarlo spesso, mi dico mentre restiamo sobriamente a parlare seduti a questo tavolino tra la folla, vorrei che ci incontrassimo come oggi, per caso, restare catturati dalla strada, presi da una stessa disperazione, quella che ci ritrova bambini, spaesati, incapaci di riuscire a fare quello che gli adulti ci impongono.

Corbi

Vitaliano Corbi  (Gerolamo Casertano, in La Galleria S. Carlo all’VIII Expo Arte - Bari 1983)

 

[...]

All`inizio, come spesso accade, il suo approccio alla pittura era stato impetuoso. Egli aveva acceso sulla tela un fuoco di luce e di colore, con una gioiosa violenza fauve, poi via via modulata in cadenze di delicato lirismo e di particolare rigore formale. Tutta la sua esperienza successiva traccia un percorso - già indagato acutamente da altri, da Del Guercio a Finizio - che è di progressiva riduzione della varietà fenomenica del campo pittorico e di crescente attenzione verso il processo segnico, fino alla segmentazione di questo in elementi «discreti», isolati dal contesto su cui si inscrivevano. A questo punto sembrava quasi che Casertano fosse assai vicino ad operare un definitivo riassorbimento del colore nell’uniforme spessore materico del piano di fondo e a neutralizzare la corsività espressiva del segno nella immobile rigidità della «cifra». Egli reagiva alle seduzioni e ai dolci inganni dello spazio illusorio insediando sulla tela un universo di simboli privati della loro funzione referenziale. Ma giunto sulla soglia oltre la quale l’immagine tende a dissolversi nello spazio mentale della scrittura (di una scrittura, tuttavia, misteriosa e indecifrabile), egli ha saputo reintrodurre, in quel mondo che stava per chiudersi entro il perimetro perfetto della forma geometrica, un principio di «casualità» che ha prodotto l’insorgere di piccole, accidentali tracce di vita. Il segno, allora, s’è trasformato in una sorta di microrganismo, in una cellula irregolare che, vagando e proliferando sulla superficie del quadro, ha riattivato presenze cromatiche che parevano definitivamente spente.

[...]

Antonio Del Guercio (Gerolamo Casertano, monografia 1978)

Credo che la ricerca attuale di Gerolamo Casertano meriti attenzione. Certo, essa implica che non ci si limiti ad uno sguardo frettoloso, che rischierebbe di farla equivocare, o disattendere, a causa del suo andare fuori corrente, rispetto ai discorsi critici oggi prevalenti.
[…]
Casertano, se intendo bene, gioca le sue carte con la consapevolezza di attraversare quel dialogo a distanza per pervenire a cose non retrospettiche. Ne fa fede, mi pare, il modo nel quale, a partire appunto da quel dialogo, partono - dalle opere sue - colpi di sonda in avanti, più vicino, nel tempo storico, a noi: verso certa pittura di segno e di gesto, ad esempio; o verso forme più recenti di astrazione lirica. In altri termini, il discorso è aperto, ma senza ostentazioni, come se egli volesse fare avanzare i propri passi nella misura stessa del progressivo possesso di certe basi, di certi fondamenti.
[…]
Ora, credo che Casertano sia consapevole della fecondità possibile (e ne ho parlato) come del rischio della sua scelta d’interlocuzione: quello, in particolare, di una effusione lirica che si sottragga al confronto con le conflittualità specifiche del nostro tempo -- con tutti i problemi di specificazione del linguaggio che quel confronto implica di necessità.

Del Guercio
Finizio

Luigi Paolo Finizio (Yellow Medium, Roma, ottobre 1985)

Come in un tessuto linguistico i segni di Gerolamo Casertano presi isolatamente non significano nulla: presi isolatamente più che un senso ognuno di essi esprime uno scarto, una differenza di senso fra sé e gli altri. Ma è differenza che, come in ogni sistema di segni, implica per essere
tale, e quindi capace di individuale significazione, identità e ripetizione nel proprio campo compositivo. Similmente alla parola il segno visivo ricorre alla stabilità e ripetizione per sviluppare varianti e mutevolezze nel tessuto strutturale di significazione. Tuttavia, per la tenuta stessa
del linguaggio visivo, per la sua capacità d’immagine unitaria, l’articolazione del segno, lo scarto fra le sue differenze e identità, volge sempre a una forte e vicendevole coesistenza, alla coesione fra nessi e opposizioni formali. Il tessuto semantico visivo si dà in questo senso sempre simultaneo rispetto alla distribuzione discreta, discorsiva, in cui si organizza il tessuto semantico della parola. Le poetiche astratte del segno, sin dalle prime esperienze kandinschiane e quelle ancor più analitiche di Mondrian, hanno sempre dovuto tener conto della specifica integrità del proprio campo d’immagine, anche quando la risultante unità espressiva sarà quella dell’automatismo surrealista o quella della gestualità informale. L’unità dell’immagine visiva per quanto frammentata nel suo contesto non può sottrarsi all’unità risolutiva del suo campo spaziale, così come non può sottrarsi all’unità conseguente del suo campo temporale. A tale tenuta d’immagine appartiene pure la ricerca espressiva che Casertano va conducendo con una personale poetica del segno. Dapprima avviata, negli anni Settanta, con declinazione assai povera di articolazione, secondo una verticalità segnica campeggiante sul piano della tela, disposta con scansioni e cadenze liriche di colore, si è andata vieppiù infoltendo di connessioni strutturali sino all’attuale individuazione composita del segno e delle sue coinvolgenze cromatiche. Non diversamente da come avvenne per Kandinsky, specialmente nelle sue ultime elaborazioni di un organicismo elementare, e come avvenne con una sequenza mai più interrotta nella scelta che ne farà Capogrossi, ma come generalmente accade in chi si decide poeticamente nella conduzione di un segno qualificante la propria identità di linguaggio, anche per Casertano fu decisivo il momento di scoperta e individuazione del proprio segno con le sue potenzialità combinatorie. Infatti al segno cosi individuato, con una investitura semantica quasi elettiva, non si riconoscerà soltanto una fisionomia più o meno nuova, ma il destino
stesso delle sue potenzialità compositive. Il nucleo visivo del segno presenterà pertanto agli occhi dell’artista, che lo fa suo, la virtualità generatrice di un sistema espressivo ancora invisibile. Questa imminenza del tutto sulla singolarità del segno, questa pienezza delle sue potenzialità strutturali guida il brio versatile, per fisionomie grafiche, per campiture e accentuazioni cromatiche, con cui Casertano dà vita al tessuto compositivo dei suoi lavori pittorici. L’idea come il suo fare pittura si attuano nell’agire stesso del segno, nel suo costellarsi e distribuirsi all’interno delle stesure di colore. Diventa perciò immediata la maniera in cui nelle sue opere la dislocazione, l’aggregarsi e congiungersi modulare del segno marca e organizza il campo d’immagine. Ed è immediatezza comunicante, tutta intrisa di pulsioni percettive che dal segno individuo si distende al tutto compositivo. Vi è certo nella decisione intrapresa di far propria questa continua marginalità del tutto che aderisce al segno, al suo costellarsi, un principio di metodo, una scelta ancora possibile di progettazione
del proprio fare arte, che riconosce nell’esercizio di linguaggio l’impellenza di una intestina necessità. Il segno prescelto ha una interiorità di senso che diventa leggibile, in quanto in ogni opera compiuta si attesta quale potenzialità di significazione motivata e organizzata con esso. Senza tuttavia chiudersi nella rigorosità di una coerenza raggelante, il segno scelto ed elaborato da Casertano si offre mobile e aperto ad evoluzioni suggerite dalla fantasia. È dagli anni Ottanta che il nostro artista napoletano va conducendo la sua coniugazione di segno e pittura. Ma, appunto, più che di segno modulare, con un suo fisso profilo, occorre parlare di costellazione segnica, la quale si fa riconoscere per alcune costanti annesse ad alcune varianti: semilune, semicerchi, motivi a pettine eccetera. La caratterizzazione insomma è plurima e ciò ovviamente arricchisce le virtualità compositive del segno. l modi in cui il segno varia la sua costanza di base diventa il richiamo subito leggibile del gioco con cui l”artista coinvolge lo spazio della tela e le stesure del colore. Ed ora in recenti lavori, come il ciclo «Yellow Medium », degli ultimi due anni, qui esposti, la dialettica fra campo cromatico e mobilità del segno mostra propendere verso la resa catturante del campo di colore. Ma anche in questo ciclo di lavori, sotto il presidio luminoso del giallo, nel suo appartenere al tutto compositivo, alla totalità di un senso che gli è sempre marginale, la collocazione del segno si fa veicolazione emotiva. Con mobilità e connessioni diramate sul piano il segno, la sua costellazione grafica, lega a sé l’idea stessa del fare pittura, quale per Casertano mostra essere un dettato e un invito alla gioia del vedere.

Gino Grassi

Gino Grassi (in catalogo bi-personale Galleria Centrart, Scafati, 1972)

[...] Casertano, che tenta di costruirsi un alfabeto proprio in cui i segni, trasversali e orizzontali, assumano ben definite posizioni nello spazio della tela. La ricerca di Casertano sembra seguire uno schema preordinato. Ma non è vero. Il giovane artista usa con un notevole rigore gli strumenti semiologici ma non viene mai meno alle esigenze della fantasia.
[…]
Si tratta, dunque, di due giovani pittori che promettono di poter dire una propria parola del dibattito artistico. Riusciranno a maturare il proprio discorso e ad acquistare una forte personalità? Solo il futuro ce lo potrà dire. L’importante è che essi seguano, con passione e con rigore, la evoluzione delle arti e non demordano dai loro entusiasmi.

Pedicini

Gerardo Pedicini (Napoli, ottobre 1980)

Disposte come tracce di un ignoto alfabeto alchemico le forme geometriche, appena accennate, di Gerolamo Casertano si dispongono, nel richiamo dello spazio vibrante di colore della tela o del supporto triangolare, come tante sillabe allusive o come simboli di un remoto mondo magico di cui non si ha più memoria. Questa la prima annotazione. Ma l’uso dei segni geometrici o, meglio, il labirintico frammento euclideo, per Casertano, ha perso ogni valore certo e assoluto. È assunto nella sua connotazione di segno per indicare una serie di graduazioni e proporzioni significanti; quando non si pone come trappola dello sguardo per istruire divari improvvisi e ribaltamenti visuali e sensoriali delle forme. Cioè Casertano attua, nella composizione, e ricerca, nella materialità dell’opera, un accumulo visivo per amplificare allusivamente le connotazioni virtuali de “l’esprit de géométrie”. Quindi il “valore espressivo del colore”, la“sintesi strutturale”, l’”emergenza dei segni”, di cui parla Del Guercio, guardano agli elementi base del linguaggio ma da sponde opposte: come da un mondo codificato, specie dai media, di cui bisogna necessariamente interrompere il circuito. Anzi proprio da questo fronte occorre partire per analizzare la ricerca di Casertano. Egli avverte, con spaesante paura, il rilievo che ha assunto, nella società moderna, la moltiplicazione dei “codici”. L’uomo ne è sommerso. Ogni segno, ogni gesto si confina e si perde in un limbo non comunicante. Anche la “geometria” da essenza del reale, da luogo interpretativo del cosmo, da strumento di ordine delle apparenze del mondo visibile si è ridotta a uno schema e a un corpo senza identità. Ambigua e misteriosa è divenuta una cifra, una pausa, un discorso sul discorso muto dei segni. Da qui la necessità di recuperarla. Ma il recupero non può avvenire nella esaltante dimensione delle forme esatte o nella capziosa ambiguità illusionistica della tridimensionalità, ma nella assunzione della sua frammentarietà. Da qui le forme: accennate, rifratte, filamentose come i legamenti delle cellule nervose sembrano vive escrescenze articolate. Insomma Casertano assume “l’esprit de géométrie” come corpo sfrangiato di un’unità linguistica perduta e con esso attua un percorso di ricomposizione del segno materico. E i segni diventano cosi particelle di un immaginario casellario mentale, memoria della stratificazione del tempo. Con l’organizzarle e seguirne l’essenzialità del tracciato si realizza l’atto creativo. Le “cifre” si muovono, si alternano, si capovolgono nello spazio: si danno cioè, nell’ironia speculare, come connotazione necessitante di un archetipo per assimilarsi a una “vasta rete di richiami e di corrispondenze, tra cui, non ultime, le strutture del cosmo, le orbite curve dei pianeti” e le sfide disequilibranti della creatività dei segni e dei sogni infantili. Un mondo nuovo, un universo magico viene così a delimitarsi e a prendere corpo. Lo spazio del tempo, riattraversato dalla memoria, investiga sull’effimero e sulla citazione e riscopre, nei modelli colti, richiami e ulteriori riferimenti: vicini e lontani. Klee e Kandinsky ma anche la consapevolezza del gestosegno
di Tapies e il ricordo di illuminanti apparizioni balenanti di Jacob o dei tracciati «neri netti riuniti in fasci, steli verdi, a volte rossi, stretti in alto o al centro tra il pugno di una invisibile mano (ricordo di Hartung?)» di cui argomenta Spinosa. E, forse, per pudore Domenico Spinosa non parla di possibili confini con la sua ricerca spaziale. Che Casertano sia stato allievo suo, molti lo sanno: come conoscono anche l’intimo amore che quest’ultimo ha sempre avuto per Edoardo Giordano. E, di fatto, Casertano e dell’uno e dell’altro riprende motivi inconsci e li rielabora con sapienza. Anzi nella rielaborazione attenta del colore, pur tra valori nuovi, s’intravede spesso lo squillo timbrico di Giordano e l’angoscia del limite storico della pittura che, in Spinosa, diventa sogno diffuso di storia velata di sovrapposizioni materiche. E come Spinosa anche Casertano, specie negli ultimi lavori, tenta di bloccare la luce nella sovrapposizione della materia. Ma, in lui, a differenza di Spinosa, tanto non diviene espansione nell’universo o atto vitale o “astratto turbine di energia”. Al contrario Casertano blocca la composizione sul dato prescelto: non investiga tutta la superficie. In lui la linea si dà nel segno che si riempie di materia turgida e aggressiva, specie nei neri vividi dei materiali, per ipotizzare e riconquistare al “nuovo” quanto la geometria, nell’attualità, ha perso.

Piscopo

Ugo Piscopo (Katambra, 2008)

L’universo di Gerolamo Casertano è fatto di musica e di sogno. Tutto spartiti e variazioni, ha rimemorazioni di remote e arcaiche albalità pregrammaticali e prelinguistiche e, insieme, proiezioni utopiche verso paesaggi dove le istanze liberatorie si autogestiscono in assoluta autonomia. Dove segni e gesti si riappropriano di sé, per dirsi e rappresentarsi al di là di ogni censura e di ogni coazione, solo in ubbidienza dei propri perentori e totali bisogni linguistici. Che, irrompendo nello spazio che si apre cedevole alle loro tensioni, vi esplicano una teleologica funzione ordinatrice e compositiva e soprattutto di disinfestazione da ogni topos preordinato, da ogni concrezione cromatica passiva e acritica, da ogni coagulo di opaco e non filtrato. Così, mentre le atmosfere si consolidano in unità e nitore, i segni diventano pienamente segnali e le parti entrano in armonia col tutto, rivendicando nel medesimo tempo identità e specificità entro le proprie cifre parziali e limitate e dinamica e irreversibile interazione con la costruzione dove tutto si tiene. È qui il segreto dell’arte di Casertano di far parlare il particolare, per quanto possa essere piccolo e parcellizzato, all’intero contesto, materializzato e immaterializzato, che sembra assorbirsi in metafisica sospensione per porgere orecchio alla parola, alla sillaba, al cenno di ciò che è minore, ma che intanto veicola trepidazioni e segreti, la cui decrittazione arricchisce la vita collettiva. In forza di tali confidenze, ciò che è a scala minima e si muove bacillarmente e amebicamente acquista la medesima dignità di ciò che è a scala maggiore e ha movimenti di grande spettacolarità, i ghetti e le separatezze si abbattono, il sogno si implementa di conferme, i silenzi parlano. Esattamente come ha confidato Melotti, che qui si cita non esornativamente, ma per consonanza di situazione e di esperienze post/para/ surrealiste, a uno dei suoi appunti da carte segrete: «E l’ultimo quartetto di Beethoven è conturbante anche quando nessuno lo suona».

spinosa

Domenico Spinosa (Presentazione della personale alla Galleria San Carlo, 1972)

[... ]
queste tele (dico tele, ancora?) interesseranno certamente il pubblico, come è accaduto nella recente personale del pittore a Livorno, dello scorso marzo. Casertano muove da un processo realistico (condotto con tecnica sufficientemente originale - si guardino i disegni -) ma, nelle ampie e magre macchie di colore, scavalca il dato reale per una scelta spiccatamente segnica. Sono tracciati prevalentemente neri, netti, riuniti in fasci, steli verdi, a volte rossi, stretti in alto o al centro tra il pugno di una invisibile mano (ricordo di Hartung?). In altri casi le tracce colorate si sovrappongono, raccogliendosi ai due lati della tela asimmetricamente rispetto un fascio di componenti verticali. Sempre al centro dello spartito non è infrequente l’apparizione balenante di un’immagine appena indicata, sempre condotta con l’ausilio di luci chiare; che rivelano il sottofondo di note più propriamente liriche, in opposizione ai tagli netti e ai veloci tracciati già riscontrati. E così ci si ricollega alle figure soffiate, nate da suggestive faccettature di geometrici impianti. Dunque il nudo, fuso in lamine metalliche, e la ricerca spaziale bidimensionale. Dunque
la prevalenza della linea sulla massa, nell’una e nell’altra esperienza.

GEROLAMOCASERTANOARTE.ORG

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